Fermentare è un gesto umano: in conversazione con Martino Beria
- Redazione

- 14 mag
- Tempo di lettura: 5 min
«Ho sempre cercato di essere me stesso e non snaturarmi nel lavoro, l’influenza slovena si è sicuramente fatta sentire.»
Ci sono cose che ci riportano a casa, e altre che ci spingono un po’ più lontano. Per Martino Beria, chef, autore e divulgatore, la fermentazione è entrambe le cose: un sapere intimo, sedimentato in famiglia, e al tempo stesso un terreno vivo di ricerca, studio e sperimentazione.
Il suo ultimo lavoro, Il Grande Libro della Fermentazione edito da Gribaudo, è la sintesi concreta e tecnica di questo cammino. Un testo che va dritto al cuore della materia. E lo fa con rigore, intelligenza, e una profonda empatia.
E infatti il suo libro si apre proprio così, con un ricordo preciso, quello di una cantina buia, l’odore di mattoni, l’umidità, la legna vecchia. «E poi la cisterna per la nafta, le cassette di kiwi e di patate, il freddo, i barili… Quelli sì che erano magici! In realtà mi suscitavano paura e un po’ ribrezzo, ma anche tanta curiosità. Erano grandi quasi quanto me, e l’odore acido che ne usciva era forte. Il tappo di legno e quei mattoni appoggiati sopra a mo’ di coperchio conferivano al tutto un aspetto misterioso. Solo anni dopo ho capito quale segreto alchemico si celasse nei barili di mia nonna Fani».
La storia di Beria (e per certi versi, della sua passione per la fermentazione) comincia da un luogo preciso: la Slovenia. «La fermentazione è sempre stata nel mio DNA: sono metà sloveno e per noi è normale mangiare e fermentare crauti e rape che usiamo quotidianamente nelle ricette tradizionali» racconta. Uno tra tutti, il ricordo della Jota, tipica minestra che si può preparare con i crauti o con le rape acide, o i crauti cremosi con aglio e farina abbrustolita, che sua nonna Fani accompagnava ai secondi e alle patate dell’orto.
«A diciott’anni mi sono appassionato di birra e ho iniziato a studiare tutto quel che potevo per comprenderne il processo produttivo. Man mano nel tempo ho voluto scoprire quanti più alimenti fermentati, capirli e provarli, così da renderli parte della mia cucina,» prosegue. Nel tempo questo interesse ha preso una direzione sempre più precisa. L’universo dei fermentati non è solo un retaggio familiare e culturale: è un sistema tecnico, chimico e nutrizionale complesso, capace di generare nuove strutture, profumi e consistenze. Eppure, nonostante l’approccio scientifico, Beria non perde mai di vista il gesto umano.
Avvicinarsi al mondo della fermentazione, spiega, «è stata una confluenza di fattori ed esperienze: in primis il mangiare e maneggiare fermentati sin da piccolo in un modo così naturale, poi la curiosità verso le bevande fermentate. Più avanti, gli studi universitari mi hanno dato la forma mentis e sicuramente la grande esperienza nella panificazione. Queste cose mi hanno portato negli anni a sperimentare e scoprire in modo analitico per poi riportare con metodo e ordine un’esperienza fermentativa professionale. Quel che però gioca la vera differenza è aver sviluppato una particolare sensibilità per i processi microbiologici, che riesco a percepire e intuire sotto pelle, in modo da guidare le fermentazioni al meglio».
Nel suo libro, Beria spiega come la fermentazione sia uno dei metodi conservativi più antichi, alla pari di salagione, affumicatura e disidratazione. Strumenti di sopravvivenza, certo, ma anche di evoluzione culturale. Una co-evoluzione tra noi e i batteri anaerobi, che ha modellato la nostra biologia e plasmato interi sistemi alimentari.
Queste esperienze lo hanno portato a studiare la caseificazione e a individuare delle tecniche per creare forme vegetali, fermentate e stagionate, che gli hanno fatto scoprire un mondo ricco di sorprese sensoriali, che richiedono indispensabili accorgimenti tecnici da approfondire, ma anche una certa sensibilità: «la fermentazione non è una ricetta. È fatta di variabili che mettono nell’elenco ingredienti come il tempo, la temperatura, la sensibilità, il cambio stagionale, la luna… questo deve mettere in un’ottica di doppio approccio: uno molto matematico e logico (se c’è più caldo i processi avverranno più velocemente, ad esempio), e l’altro molto sensibile e sottile (percepisco come sta procedendo la fermentazione e quando è il momento di agire e cambiare temperatura».
Quello che è certo è che la fermentazione sta vivendo un momento di ritrovato interesse, con sempre più persone che hanno ripreso a fermentare in casa, come conferma anche Beria, e questo processo è talmente radicato nella nostra cultura e tradizione culinaria, che a volte lo facciamo senza nemmeno rendercene conto: «ciò che non si pensa mai è che anche una semplice pizza in teglia con lievito di birra è una fermentazione, per quanto sia un solo ceppo di lieviti. Nella cucina moderna le fermentazioni sono e saranno sempre più un elemento fondamentale per completare la profondità di piatti di alta cucina, mentre nell’industria alimentare viene molto usata per ottenere aromi più intensi, per stabilizzare gli alimenti, per la produzione di sottoprodotti fermentativi in ambiti imprevedibili. Si è sempre usato fermentare, e sempre lo si farà».
Non si tratta solo di trasformare i sapori, quindi, ma di creare strutture complesse, texture nuove, umami inattesi.
Parlando con Beria, quello che colpisce è l’equilibrio che mantiene tra tecnica e sensibilità. Nelle sue parole si percepisce molta cura, pazienza, concentrazione. Anche quando racconta il piatto fermentato che meglio racconta la sua storia, la risposta è equilibrata, arriva dopo una riflessione: «Devo pensarci, non mi è semplice rispondere. Mi viene da dire: gli Žganci con Kislo Mleko, una preparazione simile alla polenta di grano saraceno che viene servita con il latte acido e normalmente si mangia nei rifugi in montagna in Slovenia. È più un ricordo, anzi unisce una serie di ricordi, che legano la mia origine con una propensione fortemente sportiva, la ricerca del selvatico e della natura, il buon cibo semplice e povero, e – ovviamente – la fermentazione».
Oggi, Beria insegna, scrive e sviluppa progetti per aziende e ristoranti. E lo fa con un’etica chiara, che non si affida mai al sensazionalismo e con le sue radici sempre bene in mente. «Ho sempre cercato di essere me stesso e non snaturarmi nel lavoro, l’influenza slovena si è sicuramente fatta sentire. Ho fatto diverse volte assaggiare la Jota alle mie cene, in versione classica, in modo che chi assaggiava potesse assaporare un’esperienza davvero tipica,» spiega.
La fermentazione, in questo senso, è uno strumento potente: conserva, arricchisce, sorprende, ci ricorda le nostre radici. Personali, certo, come la Jota, ma anche collettive: «Esistono nella storia dell’umanità tantissimi alimenti fermentati che ormai sono stati persi, in fondo la fermentazione è una delle prime tecniche di conservazione. Alcuni Nativi della California usavano fare una sorta di “formaggio” di ghiande fermentate (le ghiande perdono l’amarotico attraverso la fermentazione e diventano così nutrienti e digeribili). Tra le Alpi Friulane si usa fermentare una particolare rapa cotta, prodotto che è stato riconosciuto da slow food e che viene ora riscoperto attraverso iniziative sociali».
Beria lo ammette, non sa dove lo condurranno le fermentazioni in futuro, ma sa che non smetterà mai di appassionarsi a questa materia, «che mi ha fatto conoscere tante persone e la loro passione per il cibo». E si augura allora che il suo libro possa essere davvero lo stimolo che i lettori stanno cercando nella loro strada verso la sperimentazione - un po’ come ha fatto lui.













